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MYSTERY TRAIN
(MYSTERY TRAIN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 maggio 1989
 
di Jim Jarmusch, con Masatoshi Nagase, Nicoletta Braschi, Joe Strummer, Youki Kudoh (Stati Uniti, 1989)
 

Jim Jarmusch è come Fiorenzo Magni, uno che arrivava sempre secondo. La prima volta, quella di STRANGER THAN PARADISE (che riprendeva temi di PERMANENT VACATION), si disse che era nata la nuova stella. E che andava riconosciuta, non appena avesse preso il posto del sole di turno. La seconda, quella di DOWN BY LAW, la stella sembrò vivere di luce riflessa, quella di un memorabile Benigni che illuminò il film. E la terza, siamo ormai alla sola luce: quella di Robby Muller, il fotografo di Wim Wenders. Girato a Memphis in tre episodi che cercano un po' laboriosamente d'intrecciarsi per suggerire un tema comune, le splendide panoramiche di MISTERY TRAIN celebrano infatti un avvenimento storico, l'avvento al colore di Jarmusch. E il trionfo dell'ambiente: sobborghi squallidi improvvisamente spalancati sul verde d'un prato, viadotti d'autostrada e semafori desolati, insegne al neon soprattutto di cinema in disuso, alberghi début siècle con tappezzerie già sontuose. E quadri sbiaditi di Elvis.

Il cinema di Jarmusch (che ogni tanto inventa gag raffinate e ripetute) è un cinema colto, per carità. Ma ecco, il problema sembra proprio questo: è un cinema che si alimenta all'interno di una precisa cultura (oltre tutto, sempre un po' quella, la migrazione, il viaggio, la marginalità, magari cambiamo alla prossima?); al servizio, sicuramente sapiente, di tutta un'estetica e una mitologia. Ma l'uomo, in tutta questa costruzione, sia pure l'uomo-rifiuto, dov'è finito? Sembra esser diventato un puro elemento espressivo, una pedina da ficcare per forza, perché proprio non se ne può fare a meno, tra una carrellata e l'altra.

Al cinema di Jarmusch insomma, sembra mancare quel trucco che non sarà mai altro che un trucco. Ma che da sempre serve e tenerci ben stretti, l'identificazione...


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